Nella seconda metà degli anni ‘70, dopo un inizio del decennio caratterizzato da grandiose band metal e dall’ascesa del progressive rock, il mito della New Wave diventa sempre più preponderante.
Tra Inghilterra, Stati Uniti e Italia (anche se qui la New Wave arriverà in seguito), nuovi artisti si distinguono per l’inizio di un nuovo tipo di percorso musicale: ogni musicista si occupa di produzioni diverse, con molteplici sfumature ed ispirazioni al mondo del punk, del funk e dell’elettronica. Fino ad oggi non si può considerare questa corrente musicale come sinonimo di una singola ideologia, ma come l’unione di svariati mondi commercialmente e artisticamente differenti, che donano un tocco unico a qualsiasi tipo di realizzazione.
Tra i nomi più noti di questo nuovo movimento, a dirigere la New Wave
americana, vi sono i Talking Heads, band nata nel 1975 a New York dalle menti di David Byrne (frontman), Chris Frantz (batteria), Tina Weymouth (basso) e poi a completare la formazione classica nel 1977 Jerry Harrison (chitarra e tastiera). Essi però non sono artisti che hanno deciso di “cavalcare l’onda” della New Wave, bensì sono stati proprio fra i principali precursori di essa, dando una vera e propria identità a questo mondo in ascesa. I Talking Heads iniziano la propria carriera con grandi successi, quali Psycho Killer, considerato come uno dei loro migliori singoli, ma la vera svolta della loro evoluzione avviene grazie alla collaborazione con il produttore Brian Eno (che in questo periodo produceva album per David Bowie). Considerato un pilastro della musica moderna, è il padre dell’ambient music e produttore di ineccepibili successi dagli anni ‘70 in poi. Dopo 2 album prodotti, Eno e la band collaborano per l’ultima volta, dando vita a Remain in Light, disco più famoso ed importante del complesso che proprio questo mese compie il 45° anniversario dall’uscita. Esso però non è un successo qualsiasi, segna difatti una grande svolta per il gruppo e per la musica di questi anni, che riesce ad evolversi come non mai prima dora.
ln primo luogo, dedichiamoci ad un’analisi approfondita della copertina dell’album. Si possono notare i volti dei 4 membri della band, con delle maschere rosse che li rendono quasi “anonimi”, cancellando le loro espressioni con dei pixel rossi. Ciò non solo rappresenta l’estraniazione dell’io, tema presente nell’album, ma anche la connessione con il tribale, collegato alla presenza di musica ispirata a quella africana nel disco.
Il titolo invece, assolutamente evocativo, come detto spesso dal frontman David Byrne non rappresenta un argomento ben specifico, tende semplicemente a rappresentare ciò che è alla base della band, uno stile suggestivo e quasi illuminante. Ciò che in pochi non sanno, è che all’inizio il progetto doveva chiamarsi Melody Attack, collegato anche all’iniziale
immagine di copertina che presentava degli aerei in stile pixel rosso, ma dato il sound più evocativo del prodotto finale, si è deciso di chiamarlo in modo diverso.
Per quanto riguarda lo stile musicale utilizzato, vi è una fusione del rock classico suonato dalla band con un utilizzo rivoluzionario del funk, che rende le canzoni sia estremamente complesse sia estremamente veloci. Oltre a tutto ciò, è presente l’ispirazione ai poliritmi africani, che rendono l’album davvero unico nel suo genere. Possiamo quindi dire che non troviamo solamente una fusione di generi musicali come è spesso accaduto in tante altre band della New Wave, ma vi è un nuovo tipo di suono incisivo del tutto unico, pulito, scattante ed evocativo come mai fino ad ora. Tra le canzoni è presente il tema dell’alienazione (che come ho già detto richiama la copertina dell’album), ad esempio in Houses in Motion o soprattutto in Once in a Lifetime, ritenuto come uno dei migliori pezzi musicali del gruppo. Quest’ultima canzone si occupa proprio dell’estraniazione dell’io, l’uomo moderno difatti, riguardandosi indietro, non si rende conto di ciò che abbia vissuto e di come sia arrivato fino al punto della vita che sta attualmente vivendo, mettendosi in dubbio.
Gli altri brani dell’album, ognuno dal sound assolutamente evocativo, tratta i temi più svariati, quali ad esempio la pressione sociale ed il potere, The Great Curve è l’esempio più azzeccato, in cui è presente una sperimentazione di una catena di loop musicali nata dalla mente di Eno e Byrne; qui vi è la descrizione delle pressioni del mondo moderno, con un testo ipercomplesso di difficile interpretazione.
A concludere il disco invece, The Overload, è una canzone fuori dal comune, ancora più estraniante di ciò che è stato proposto fino a questo momento nel prodotto finito; il brano si mostra criptico ed inquieto, lasciando l’ascoltatore con una sensazione vicina allo sconforto.
Dopo esserci dedicati a quest’approfondita
analisi, possiamo dedurre quanto Remain in Light si presenti come una creazione unica nel suo genere. Nel 1980 tanti nuovi volti del mondo della musica si distinguono per la loro bravura, dai magnifici Joy Division ai The Clash, ma nessuno come i Talking Heads riesce ad ammaliare in modo così unico. Nonostante sia il più grande successo del gruppo, Remain in Light rimane ad oggi come un tassello della loro inequivocabile carriera, che più avanti darà vita a progetti unici come l’album Speaking in Tongues o il film concerto Stop Making Sense, il quale li consacrerà come uno dei nomi più grandi della musica moderna.
