Di film disturbanti che hanno scioccato il pubblico ce ne sono stati tanti negli anni, dagli horror di seconda classe ai tanti memorabili thriller psicologici, ma nessuna pellicola è mai riuscita a raggiungere il livello di Arancia Meccanica.
Forse uno dei più elevati capolavori della storia del cinema, il lungometraggio di Stanley Kubrick riesce ancora oggi a sembrare rivoluzionario nonostante sia uscito nelle sale nel 1971, portando sullo schermo qualcosa di mai visto fino a quel momento. Negli anni ‘60, prima di Kubrick, Andy Warhol durante una fase dedita al cinema sperimentò la creazione di una pellicola cinematografica trasposta dal romanzo Arancia Meccanica di Anthony Burgess, il suo nome era “Vinyl” e fu il primo film che osò trasporre la storia su schermo, ma il risultato non fu dei migliori. Solo una mente contorta come quella di Kubrick, che solamente 3 anni prima dell’uscita della propria pellicola aveva portato al cinema 2001: Odissea nello spazio, poté dedicarsi ad un lavoro così complesso. Nonostante il romanzo originale fosse colmo di violenza e fenomeni inquietanti, il regista superò ogni limite, cercando di rendere ogni singolo fotogramma il più memorabile possibile.
Il prodotto finale fu meno divisivo di altre pellicole del cineasta, difatti benché chiunque si ritenesse sconvolto dalle atroci scene condotte su schermo, critica e pubblico apprezzarono il film, portandolo anche ad essere riconosciuto in varie premiazioni. Ma ad oggi il lungometraggio non viene solamente ricordato per i disturbanti eventi protratti, difatti vi sono tanti elementi presenti che ancora oggi sono oggetto di discussione. Purtroppo uno spettatore non attento o superficiale, dedicandosi alla visione noterebbe soltanto le numerose scene crude, non approfondendo altro, per questo prima di guardare per la prima volta il film bisognerebbe capire al meglio che cosa si abbia davanti.
Iniziamo descrivendo a grandi linee la trama iper-strutturata, che ha come protagonista Alex DeLarge, un giovane ragazzo inglese cittadino di una società post-moderna, caotica e quasi del tutto dissociata. Egli insieme ai suoi amici detti “drughi” (spiegheremo meglio il perché di questo termine dopo) vive come un teppista, dedicandosi a qualsiasi tipo di violenza per le strade della sua città, picchiando barboni e stuprando donne innocenti. Quando però viene catturato dalla polizia, invece di passare il resto dei suoi giorni in prigione, viene sottoposto alla “Cura Ludovico”, ossia un trattamento sperimentale che lo possa far allontanare da quei pensieri che lo hanno ossessionato per tutta la sua giovane vita. La prima parte della pellicola si sofferma soprattutto sulle scorribande di Alex e i suoi amici, facendoci notare un mondo tanto violento quanto affascinante; vengono utilizzate scenografie uniche, ovviamente post-moderne ma che in qualche modo si avvicinano alla pop art e a volte ad un tocco più alienante. Dalla conturbante scena della cura di Alex in poi invece si possono aprire dei dibattiti centrali per la pellicola, infatti il protagonista, dopo una terapia terrificante in una delle scene più memorabili di tutto il cinema dello scorso secolo, continua a possedere quei pensieri avuti fino a questo momento, ma la violenza e l’odio sono solamente frenati in modo “meccanico” dal proprio organismo, che li rifiuta assiduamente e non lo fa più sottoporre ad alcuna azione di questo genere.
Come dice il cappellano del carcere in cui Alex risiedeva, che si affezionò parecchio a lui durante la sua condanna, il ragazzo non ha più alcuna scelta; il libero arbitrio, che viene ritenuto come caratteristica fondamentale dell’essere umano, scompare, e quindi, l’uomo senza di esso non è più uomo. Per capire al meglio l’argomento, prima bisogna affrontare la lingua “nadsat” utilizzata nel libro e nel lungometraggio, inventata dall’autore che per anni fu linguista; essa è un insieme di slang inglese e russo con aggiunta di termini inventati, la quale viene adoperata dai protagonisti della storia, ad esempio per l’uso di termini quali “gulliver”, ossia testa, o “drughi”, ossia amici. Il titolo del film, e da qui torniamo all’etica sul libero arbitrio, “Arancia Meccanica” o in inglese “A Clockwork Orange” è un utilizzo della lingua nadsat e di una vecchia frase sentita da Burgess che appunto rappresentano la nuova vita di Alex dopo la propria cura.
“Orange” del nome si riferisce all’uomo stesso, quindi il significato ultimo è “uomo meccanico”, riferito ad Alex, che privo della propria scelta di fare violenza, privo del libero arbitrio come affermato dal prete del carcere, diventa un automa, che al di fuori ha un aspetto civilizzato e normale, ma dentro è solamente controllato da ingranaggi, senza scelte e pensieri propri.
Naturalmente questa idea dell’uomo come macchina ha uno scopo di immensa critica politica, dove l’essere umano moderno non solo è controllato dal governo, ma è anche punito e privato delle proprie caratteristiche fondamentali.
Ciò che rende la pellicola monumentale è il grandissimo insieme di tematiche fondamentali per l’epoca moderna, non è presente solo l’idea della scelta umana, ma c’è anche tanto da dire sulla violenza presente nella storia. Quest’ultima viene spesso mascherata da Kubrick, rendendo il tutto ancor più surreale. Alex e i suoi drughi non indossano capi qualunque, bensì sono totalmente bianchi, questo tende a rappresentare la purezza, come anche il latte che bevono durante le proprie giornate, limpido e chiaro. Ma dietro a questo candore vi è soltanto una maschera, il latte nasconde la droga e l’abbigliamento può essere ricondotto all’idea di “malattia mentale”, come se fossero indossate delle camicie di forza. Pure il cantare “Singing in the rain” durante gli atti di violenza, un brano allegro proposto durante degli stupri, contribuisce all’alienamento dello spettatore e al non far comprendere ciò che sia realmente puro e buono dal violento e dal folle. È inoltre da ricordare la scelta del regista di non voler utilizzare un singolo tema musicale ripetuto per l’intera pellicola, bensì un mosaico di canzoni, da quelle di Beethoven amate da Alex ad altri grandi classici della musica classica, simbolo assoluto di perfezione, che si contrappongono alle crude e sporche scene dell’intero film.
Avendo quindi analizzato ogni aspetto del lungometraggio, si può concludere questa analisi con un approfondito studio della figura di Stanley Kubrick, il grande genio dietro alla maestosa messa in scena del prodotto finale. L’ultraviolenza, l’etica, la pop art, il governo ed il sesso vengono uniti dal regista in un quadro rivoluzionario del mondo moderno, che mostra una storia tanto impattante quanto visivamente sublime, che difficilmente potrà essere dimenticata dallo spettatore.
